Urgenza e base imponibile erosa spingono ad anticipare le azioni UE. Una nuova «tassa sui servizi digitali» mirata a recuperare dalle multinazionali del web, a regime, circa 400 milioni di sterline all’anno di gettito atteso. L’annuncio è stato dato dal Ministro delle finanze del Regno Unito il 29 ottobre durante la presentazione in Parlamento del progetto di bilancio. Il cancelliere dello Scacchiere ha assicurato che la misura “attentamente progettata per garantire che siano i colossi tecnologici affermati – e non le startup tecnologiche – a sostenerne il peso” interviene nelle more di una negoziazione internazionale che ad oggi non ha prodotto risultati «non possiamo continuare a parlare per sempre, la Gran Bretagna farà la mossa unilateralmente se necessario” ha aggiunto.
Il riferimento è alle iniziative UE – la commissione ha proposto misure transitorie (una tassa sui ricavi da servizi digitali) e strutturali (l’estensione della nozione di stabile organizzazione alle attività digitali), che faticano a vedere la luce per l’opposizione di alcuni Stati Membri – e quelli intraprese in ambito OCSE, che ai primi di ottobre erano state richiamate proprio dal ministro britannico che richiedeva di accelerare sui progetti di tassazione condivisa. Da pochi giorni uno studio svolto dalla no-profit britannica Tax Watch ha stimato che Facebook, Google, Apple, Microsoft e Cisco hanno generato solo nel 2017 nel Regno Unito utili per oltre 6,6 miliardi di sterline ma pagato imposte complessivamente solo per 191 milioni di sterline, sottraendo oltre 1 miliardo di sterline di tasse dovute all’erario inglese solo nell’ultimo anno.

È particolarmente significativo che la misura venga adottata nel Regno Unito che sta predisponendo piani di uscita dalla UE (Brexit) e che in passato è stato uno dei pochi Paesi ad adottare misure innovative di recupero dell’erosione della base fiscale ad opera delle multinazionali, con la “diverted profit tax” introdotta con la legge di bilancio del 2015. L’interesse di tale norma è che combatte l’elusione di grandi società (sono escluse le PMI con meno di 250 dipendenti/50 milioni di sterline di ricavi) aprendo delle istruttorie su una presunzione di ricavi generati alla quale il convenuto deve rispondere (inversione dell’onere della prova) o il sottostare al pagamento di una percentuale prestabilita. Peraltro proprio in questi giorni su tale tassa sono stati proposti emendamenti migliorativi che entreranno a regime con la nuova legge di bilancio. Una tassa analoga esiste in Australia.
La nuova tassa sui servizi digitali proposta si applicherà a partire dal 2020 e prevedrà un prelievo del 2%, una misura analoga a quella “provvisoria” proposta in ambito comunitario (3%) su stimolo del Consiglio UE di Tallin dello scorso autunno e di un gruppo di Paesi, fra cui l’Italia, in fase di discussione avanzata. Il tema è caldo in ambito UE: la Presidenza di turno austriaca spinge per l’adozione entro fine anno. Dopo un giro di sensibilizzazione operato dal governo francese, uno dei maggiori promotori dell’iniziativa, che ha allargato il numero dei Paesi favorevoli all’adozione delle norme a 13 (dai 9 iniziali) in questi giorni, in questi giorni secondo quanto riportato dal quotidiano francese Les Echos è giunta sul tavolo dei 28 Ministri dell’Economia e Finanza UE una lettera firmata dai maggiori operatori del web (16 in tutto, partecipano anche Booking, Spotify, Zalando), contro la “Taxe GAFA” (dall’acronimo dei maggiori operatori, Google, Apple, Facebook, Amazon) come sono state ribattezzate le misure UE. L’obiezione maggiore è che l’impatto di tali misure si ripercuoterebbe sulle piccole e medie imprese UE, che generano ricavi su tali piattaforme e che queste ultime sarebbero ulteriormente penalizzate dagli oneri derivanti da norme non concordate a livello multinazionale.
Si tratta di obiezioni reiterate anche in passato, ma che, come più volte sostenuto da CRTV in tutte le sedi istituzionali, oltre a prolungare una situazione di squilibrio fiscale e competitivo che penalizza le aziende continentali, viola il principio di equità fiscale, sottrare base imponibile e valore creato in Europa a vantaggio di operatori apolidi. Una situazione che, qualora prolungata potrebbe rivelarsi letale per molte aziende europee, fra cui anche quelle del settore radiotelevisivo. Viceversa la creazione di un blocco con peso di mercato quale l’Europa potrebbe accelerare i processi avviati anche a livello multilaterale. Le norme UE, peraltro, hanno già ispirato Paesi come la Corea del Sud e il Cile.

